(Fabrizio Dassano)
Era il mio ultimo giorno di ferie, quindi avevo tempo. Poiché recentemente avevo trovato delle piume di gallina nell’androne del condominio, mi sono appostato in casa, dietro le tapparelle abbassate a feritoia ad osservare.
L’indizio ha trovato rapida conferma: era lui, il mio ex vicino che è tornato. Aveva i soliti occhiali scuri e un impermeabile leggero biancastro (fuori c’era una leggera brezza mattutina che annunciava la fine della calura estiva). Sottobraccio aveva una scatola di cartone portauova, quelle da 12.
Dalla finestra del tinello potrò nuovamente spiarlo nelle sue future azioni sconsiderate.
Il resto del mio ultimo giorno di vacanza l’ho dedicato al Covid 19. Il giorno prima mi aveva telefonato con numero privato il mio medico curante, chiedendomi se – in quanto personale scolastico – ero disponibile a fare il test seriologico.
Io ero al telefono con i goccioloni di sudore perché ho paura delle punture. Poi, scatto d’orgoglio, ho detto “sì”. “Bene, allora l’aspetto domani in ambulatorio per le 10”. Accidenti! E pensavo a mio padre di 84 anni che dopo 14 mesi di lista d’attesa ordinaria per l’operazione di cataratta non è mai stato richiamato a causa del Covid 19!
Giungo all’appuntamento in anticipo, mastico una serie interminabile di cicles e passeggio nervosamente ad una ventina di metri fissando la serranda ancora abbassata dell’ambulatorio. Poi lei, la dottoressa, arriva. Un tuffo al cuore.
Cinque minuti prima dell’ora fissata alza inesorabilmente la serranda. Tutta la mia vita infettiva mi passa davanti in un istante, come se fosse un film: morbillo, rosolia, varicella, scarlattina, quinta e sesta malattia, pertosse…
Ora sono solo davanti a lei, mentre mi disinfetta tre dita della mano sinistra. Mentre penso perché proprio tre, mi dice anche che sono il primo a fare il test tra tutti i suoi assistiti che lavorano nel mondo della scuola. “Che fortuna!”, penso tra me e me.
La sento armeggiare con una busta di plastica, ma rigorosamente non guardo. Finalmente sento un “clack” e un dolorino al polpastrello. Allora guardo: la dottoressa imbibisce con una goccia del mio sangue uno stecco e lo posa in un forellino di un rettangolo di plastica. Poi mi dice di aspettare per dieci minuti in sala d’attesa, che nel frattempo è stata parzialmente occupata da altro personale scolastico che parla di trasferimenti, posti disponibili, pensioni come miraggi lontani… “Ok, sono in famiglia”, penso un po’ rinfrancato.
Dopo i dieci minuti canonici arriva l’esito. Negativo. Chiedo se devo comunicarlo alla mia amministrazione e lei mi dice che non sono obbligato, che è tutto “su base volontaria”. Anche il test i medici di base non sono obbligati a farlo, solo “su base volontaria”.
Poi mi rilascia un piccolo foglietto di carta che è un certificato medico che posso anche decidere di appendere vicino al diploma di laurea e alla foto della mia Prima Comunione. Il giorno dopo torno al lavoro e, adducendo la paura di perderlo, chiedo all’ufficio personale se per favore lo depositano nel mio fascicolo in archivio.
Loro mi guardano e mi dicono: “Come vuoi, tanto è su base volontaria”.
Mi rendo allora conto che l’Italia – e che Italia! – la fecero davvero i “volontari” di Giuseppe Garibaldi.