(Fabrizio Dassano)
Il prossimo 10 agosto ricorre a Valprato Soana presso il santuario a lui dedicato, a quota 2019 metri, la festa di San Besso, la prima dopo secoli, dell’era Covid-19. L’avevo intravisto in una giornata di nubi basse con una visibilità di nemmeno cento metri, in cui non avevo potuto cogliere la maestosità del luogo e neppure entrarci. Ci tornai in seguito accompagnato da una di quelle persone straordinarie che tengono viva la montagna, Evelina Anselmo. Ci aggrega per la salita ad un gruppo di anziani della “Giovane montagna” arrivati dal cuneese. Lei ci aspetterà al santuario.
Risaliamo in macchina la bella e selvaggia Valle Soana e arriviamo all’ultimo paesino, Campiglia Soana. Sosta per un caffè in un piccolo bar gestito da un gruppo di giovani, e siamo davanti ad un monumento ai caduti della Grande Guerra. Dei volti di ragazzi delle fotografie in ceramica ci fissano mentre ci mettiamo gli zaini in spalla. Sicuramente erano saliti a invocare la protezione di quel loro santo martire della Legione Tebea e insieme umile pastorello, per avere la sua protezione.
Antonio Peretti, custode del santuario isolato di San Rocco, un posto incantevole sulle rive del Soana ci aveva spiegato la storia di suo nonno che fu chiamato Besso, sergente maggiore di fanteria:
“Come tutti quelli che dovevano partire per il fronte era salito a San Besso, facevano la festa e prima di tornare a casa staccavano un pezzo di pietra dalla nicchia che c’è in chiesa, proprio sotto la grande roccia. A casa sua madre gliela aveva cucita in un taschino sotto la flanella di lana, in corrispondenza del cuore. Un giorno ci fu un furioso assalto contro la trincea austriaca e tutto il suo plotone cadde prima di arrivare ai reticolati nemici. Lui no, fu solo ferito ad una mano. Fu l’unico sopravvissuto. Ricordo molto bene che per tutta la vita tenne nel suo portafogli un foglietto scritto e ripiegato con cura in quattro: sopra c’era l’encomio che gli aveva scritto il generale in persona”. Dopo la guerra l’ex-soldato Besso emigrò in Francia a fare il venditore di vetri: se li portava in spalla su una specie di basto per uomini, il “Berci”. La sua famiglia sarebbe arrivata a 9 generazioni di ramai e argentai, lavori che si andavano a fare altrove, come a Pieve di Sacco o nella bergamasca; oppure in Francia.
Quella della Soana era una valle di emigrati, che si ritrovavano a qualsiasi costo una volta l’anno per festeggiare i propri santi patroni. “Oggi al confronto di un tempo non c’è quasi più nessuno, un’ottantina di persone al massimo ma fino agli Anni ’70 del Novecento c’erano due balli, gli alberghi erano pieni di gente che rientrava. Oggi sono abbandonati – racconta Antonio Peretti –. Prima di emigrare anch’io, a Milano, ho passato la mia infanzia qui, tra gli orti terrazzati a vedere nascere e crescere insalata, sedano, porri, zucche e patate. Quando c’è la festa si vendono oggetti offerti all’incanto davanti alla chiesa per raccogliere le offerte. Adesso che sono tornato posso dedicarmi a questa chiesa per tenerla bene, decorosa. Sto bene qui”.
“Qui” è il cuore di una valle che neppure dopo la Grande Guerra ha potuto dare il pane ai suoi figli. Sono francoprovenzali, il loro dialetto ha quasi nulla a che vedere con il piemontese e non li si comprende per niente quando parlano tra di loro. Non è poi così strano: a pochi chilometri da Ivrea c’è la ricchezza di potersi trovare nelle persistenze di altre etnie linguistiche. Se vado a nord, in valle d’Aosta, parlano un patois metallico e non capisco un accidente. Se vado nella valle di Gressoney, la prima valle a destra dopo Pont, parlano un oscuro tedesco medioevale del Trecento, il Walser.
Zaini in spalla, attacchiamo l’ascesa. Fa caldo e il sentiero sale subito in verticale. La consolazione è il panorama che cinge lo sguardo con le sue cime che sfiorano i 3mila metri verso lo spartiacque con la Valle d’Aosta. Lasciata Ca’ Nuova a 1815 metri, arriviamo alle Grange Ciavanis a 1876 metri e nell’ultimo tratto, ci troviamo sul sentiero in mezzo ad una transumanza in senso contrario. C’è qualcosa dell’epos classico nei gesti e nelle azioni dei pastori. Una cavalla bionda precede la mandria. Dietro una mula che porta sul basto una grande caldaia in rame che svetta su due enormi borse colme di oggetti invisibili coperti da un telo mimetico dell’esercito svizzero. Sembra una campana tibetana.
Ci fermiamo, ci salutiamo con due giovani pastori e ci avvisano che dietro sta arrivando l’intera mandria. Sentiamo l’abbaiare dei cani, il sentiero vibra sotto gli zoccoli. Le teste cornute ondeggiano come elmi apocalittici, gli occhi roteano. Sembrano dei guerrieri troll che scendono dalle loro fortezze alpine come usciti dall’immaginazione del sottotenente dei Lancashire Fusiliers, John Ronald Reuel Tolkien, lo scrittore della “Terra di mezzo”. Ci passano a pochi centimetri. Dietro c’è una pattuglia di cani che spinge e governa l’andatura. Dietro ancora, un’intera famiglia: i bambini subito dopo i cani, i vitellini e poi gli adulti in retroguardia. Siamo rapiti da questa sfilata ancestrale. Vedo dei ragazzi dell’età dei miei figli che conducono, seri e orgogliosi, la loro mandria senza palmari e GPS, senza nessuna copertura telefonica. Molto più utile un bastone e lo zaino sulle spalle.
Il problema per noi è che proseguire il sentiero pieno di cacca di mucca è più arduo del previsto! Adesso la valle si allarga sotto il monte Fanton e già scorgiamo il santuario di San Besso incuneato sotto una vetta obliqua che sembra un enorme trampolino. Del gruppo di anziani della “Giovane montagna” scorgiamo gli ultimissimi che sono già in cima da tempo. Il panorama e la pace che regna in questo luogo, ci sprofonda in una nuova dimensione.
All’interno del santuario scorgiamo la statua di San Besso che porta una elegante armatura romana della Legione Tebea; lo studio di Hertz mette in risalto una duplice immagine: da una parte la tradizione “ufficiale” colta ed edificante con tanto di ufficio liturgico eporediese del ‘400, dall’altra quella ingenua e poetica del pastore benedetto che viene scaraventato dall’alto di una roccia, dai rivali invidiosi della bellezza del suo gregge. Roccia nella quale imprime il suo carattere sacro.
Qualche ex voto campeggia sulle pareti del santuario, ne scorgiamo uno risorgimentale ma l’attenzione è catturata dalla grande visione delle montagne. Il gruppo di escursionisti si mette a cantare “Signore delle cime”. E si rimane stupefatti.
Tra gli ex voto ne spicca uno dai toni “orientali” e si vede proprio la giungla. Dietro agli alberi ci sono dei viet-cong che si sporgono per sparare a dei soldati francesi i quali rispondono al fuoco; sono caduti in un imboscata. Cosa c’entra il Viet-Nam con San Besso? Guardiamo le poche parole didascaliche dipinte sulla tela e capiamo che si tratta di un valsoanino emigrato in Francia partito con l’esercito francese per combattere in quella colonia ribelle: PER GRAZIA RICEVUTA – INDOCINA 1948 – 1952, BABANDO GIUSEPPE. Sulla tela, di mano ingenua, campeggia san Besso in armatura in una nuvoletta. In basso a sinistra è raffigurata una situazione disperata: 4 soldati francesi di cui uno è già morto sono schiacciati contro una parete di roccia da un assalto viet e si stanno difendendo con una mitragliatrice. Sullo sfondo c’è una radura in cui sorge un tempio, forse ci si potrebbe ritirare, ma piovono bombe di mortaio. Soltanto l’intercessione di San Besso permette loro di salvare miracolosamente la vita in quella triste condizione.
Guardando l’altare sulla destra si apre una caverna scavata nella roccia, dentro ci sono diversi ex voto, metallici, dipinti e a stampa. Uno è un disegno all’acquerello su carta che raffigura con un certo stile elegante e dinamico tre soldati che marciano, due alpini ai fianchi di un bersagliere. Sono disinvolti, ma sembra che si lasciano dietro una pagina tremenda. I volti sono ben disegnati ed è elevata la precisione delle uniformi. Uno dei due alpini è un caporale. Portano tutti e tre la mantellina. Alle loro spalle alla destra c’è San Besso in una nuvola, nella destra la palma, simbolo del martirio e nella sinistra il crocifisso inastato. Alla sinistra c’è un santo dottore della chiesa. Le lacerazioni del bordo inferiore consentono solo di leggere due nomi: GIUSEPPE, PIETRO e G. R. (Grazia Ricevuta) 1915 – 1918.
Vediamo ora un quadro, una tavola dipinta, protetto da un vetro, sormontato da quella scritta in stampatello, dove vutto è l’italianizzazione sbagliata del piemontese “vot” (voto). Vi è una grande immagine di san Besso con la mano aperta, l’avambraccio teso. Come a fermare il pericolo. Lo stesso gesto che rappresenta la statua policroma all’interno del santuario.
Sullo sfondo è rappresentato il santuario, ma non si vede null’altro perché tutti i lati sono occupati da fotografie di soldati della Grande Guerra, formato cartolina postale, che costellano i bordi laterali e quello inferiore, sotto il vetro. Non riusciamo a capire se si tratta di un ex voto militare collettivo o di un riutilizzo di un grosso ex voto che sia stato destinato ad ospitare oltre 20 “resti fotografici”, forse di altri ex voto, andati distrutti dall’umidità. Non c’è alcuna indicazione sul retro che possa dipanare il piccolo mistero di quelle venti paia di occhi che ci fissano ancora dopo oltre un secolo: di quei giovani e giovanissimi nelle loro divise.
La luce scende dietro le guglie delle cime. Evelina chiude il cancello di ferro e noi la seguiamo verso un altro sentiero per tornare a Campiglia. Riprendiamo la via del ritorno nell’imbrunire dei pascoli tra i campanacci delle mandrie in lontananza. Gli anziani della “Giovane montagna” come minimo saranno già in tangenziale sul pullman a cantare tutti in coro.