La figura del pastore buono e bello (“kalòs” è il termine greco) ci introduce in un ambiente molto usuale e conosciuto: il gregge, l’ovile, il lupo, il mercenario. Poco prima Giovanni aveva parlato di Gesù come “porta” dell’ovile, una porta viva che introduce al mistero stesso di Dio, in contrapposizione alla Porta delle Pecore a Gerusalemme, che introduce al tempio. E per questo i Giudei lo considereranno blasfemo.
Il pastore dà la vita per le pecore, le conosce e le chiama per nome ad una ad una, sa chi sono, vuole tessere con loro un rapporto personale. Possedere il nome nel mondo semitico è possedere tutta la realtà della persona. Viene spontaneo il richiamo al salmo 23: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”.
Nello stesso tempo il pastore-Gesù è la guida del gregge e il compagno di viaggio, disposto a dare la vita per le pecore: “Io do la mia vita per poi riprenderla di nuovo”. La morte e la resurrezione sono all’orizzonte di questo brano.
Ma il pastore-Gesù va oltre il recinto: pensa alle pecore che stanno fuori e sogna la realtà di un unico gregge e di un unico pastore.
Alzare lo sguardo per andare al di là del recinto è il contrario di alzare muri per non vedere, per non sentire il grido dei disperati. Lo stile del “buon Pastore” è quello di andare ad incontrare chi non è già in mezzo a noi. Siamo interpellati in prima persona da coloro che sono al di là del recinto delle nostre case, delle nostre chiese, dei nostri gruppi. Ecco perché il Papa nell’Evangelii Gaudium ci esorta ad uscire dalle sagrestie per incontrare le persone. E incontrarle significa accoglierle, prendersene cura e amarle.
Rosanna Tos